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Charmolypi: premio a un film d’autore

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Nel significato del titolo è sintetizzato tutto: Charmolypi. In greco questa parola esprime due emozioni contrastanti ma coesistenti: gioia e tristezza. Contemporaneamente. Non c’è nulla di meglio di questo titolo per spiegare il potente ed efficace messaggio che questo cortometraggio lascia nella mente e nel cuore di chi lo guarda.

Solo un’anima profondamente innamorata del mare e della bellezza come Clauss Dragomir, fotografo e atleta del Team Omer che vive in Grecia nella zona del Peloponneso, poteva sentire il bisogno di raccontare e farci vedere quello che sta succedendo nel mare. Perché è chiaro che il film è un atto di amore verso il pianeta e uno verso la composizione fotografica, verso la pura estetica dell’inquadratura.

Pensandoci bene Charmolypi è molto di più. È un veicolo, uno strumento che attraverso l’uso del linguaggio universale delle immagini ci accompagna sott’acqua per vedere i segni del nostro passaggio sul pianeta (nessuno di noi è escluso). Saremo conosciuti per le tracce che abbiamo lasciato, con queste parole che sono il sottotitolo del film, durissime, ma verissime, può iniziare la visione.

Vi sentite già in colpa? Beh è normale. Perché se c’è qualcosa che Charmolypi lascia nella mente è proprio questo. La visione diventa un invito all’azione e alla reazione. Uno stimolo al riscatto. Una promessa a se stessi e agli altri a pensare che il mare, così come il pianeta, sono la nostra unica casa. E ora ci tocca, ma davvero, prendercene cura.

Quando ti è venuta l’idea di questo progetto?
Circa un anno e mezzo fa. Cercavo il modo di raccontare in breve tempo quello che vedono i miei occhi durante i tuffi. Il mio lavoro principale è fare video per aziende di moda. Così ho cominciato a immaginare un cortometraggio di 5-6 minuti che avrebbe unito il mare alla moda. E dato che il mare è pieno di plastica, il passo è stato breve.

Qual è la relazione fra questi due mondi così diversi?
Sono i miei mondi! Il mare è la mia passione più grande, la moda è l’ambiente per cui lavoro. Ma c’è di più. La moda è un business importante e conosciuto in tutto il mondo. Usare una modella per raccontare i danni della plastica in mare, facendo girare il mio progetto mi è sembrata una buona soluzione per raggiungere il mio obiettivo.

Qual è?
Far conoscere al mondo quello che sta succedendo. Volevo far vedere a persone che non hanno nulla a che fare con la pesca e con il mare quello che c’è nel fondale. Quello che noi umani, nessuno escluso, abbiamo fatto.

Come hai visto cambiare le condizioni del mare?
Sono 25 anni che mi immergo. Ho assistito a un peggioramento enorme. Tra rifiuti e mancanza di pesce il nostro mare non è più lo stesso. Ma sono convinto che possiamo fare qualcosa. Innanzitutto prendercene cura.

Peggioramento repentino? Facci qualche esempio.
Durante la lavorazione, dopo un po’ d’immersioni e girato sentivo che mancava qualcosa. Che il materiale non era sufficiente. Così ho provato a immergermi a un chilometro da dove stavamo lavorando. Un posto in cui solitamente non mi immergo. Appena sono entrato in acqua ho trovato migliaia di rifiuti. Dappertutto.

Che sensazione hai provato?
Sono rimasto sorpreso e triste con un grande senso d’impotenza e di colpa. Mi rendo conto di quanto l’uomo possa essere una bestia (testuale n.d.r.). Poi penso che se ognuno di noi si immergesse a recuperare un solo pezzo di plastica, tutto sarebbe diverso. Siamo troppo pochi noi apneisti pescatori. I subacquei solitamente vanno a fare immersioni in fondali scenografici e profondi. Difficilmente vicini alla costa, dove in realtà è molto facile trovare della plastica.

Quale potrebbe essere la soluzione?
Aiutarci a vicenda. Fare delle sessioni d’immersione e di apnea dedicate alla pulizia. Ci sono già, che sia chiaro. Ma sono poche, anzi pochissime. Serve uno sforzo maggiore. Non riesco a togliermi dalla mente che qualsiasi cosa che compriamo è fatta o contiene plastica. Sembra un’affermazione provocatoria, in realtà basta osservare un supermercato per capire che non è così. Certo fortunatamente non tutta finisce in mare, ma troppa.

Ti senti ottimista o pessimista?
Ottimista. (ma lo dice facendo una lunga pausa).

Torniamo al film. Come è stata l’accoglienza in Grecia?
Molto positiva. Parecchi giornali di moda tra i quali Marie Claire ci hanno dedicato articoli e interviste. È stata una bella sorpresa. Ma anche un grosso incoraggiamento a continuare. Molte persone complimentandosi ci hanno chiesto di non fermarci e andare avanti. L’ho fatto vedere ai pescatori che con le loro barche escono in mare ogni giorno. Erano esterrefatti, senza parole. Vivono il mare quotidianamente da anni, ma solo dalla superficie. Mai avrebbero pensato che il fondale fosse così inquinato. Pescano, ma spesso buttano plastica e reti rotte in acqua…

Porterete questo corto all’estero?
Certamente. Siamo stati contattati dal Fashion Film Festival di Los Angeles che lo userà durante la settimana della moda negli Usa. Speriamo che sia solo l’inizio. Più persone lo vedono, più persone reagiranno.

Il tema della plastica è molto sentito in Omer?
Assolutamente sì. L’anno scorso abbiamo iniziato un progetto che si chiama #OmerAgainstPlastic. Ogni atleta del Team Atleti, così come ogni appassionato, è chiamato a raccogliere plastica e farsi fotografare. La foto finisce sui social. È grazie a questa sensibilità che Omer ha deciso di contribuire a sostenere una parte dei costi di produzione.

Parli spesso di noi, in quanti avete girato le scene?
Eravamo in 5, più la modella. Oltre al team che lavorava in mare voglio ringraziare Angie Andritsopoulou che ha creato l’abito in rete ricoperto con i rifiuti del mare.

Quanti giorni avete passato in acqua?
Il calcolo più completo deve considerare anche il tempo dedicato alla preparazione. Io e il mio assistente per scegliere le location e gli orari giusti avremo impiegato circa dieci giorni. Per le riprese ne sono serviti 3 e quasi due mesi per il montaggio e la musica.

Quando avete girato?
Fra ottobre e novembre, con l’acqua abbastanza fredda. La modella è stata molto brava. A lei è toccato il lavoro più difficile: immergersi in costume e senza muta…

Come avete fatto a trovare quella giusta capace di fare apnea?
La modella era una nuotatrice professionista con le basi per l’apnea. Le ho fatto un corso di un giorno insegnandole i fondamentali e abbiamo iniziato. È stata bravissima. Pur non immergendosi a grandi profondità, circa 7-8 metri al massimo, c’erano molte difficoltà da superare.

Per esempio?
Non poteva usare la maschera, le pinne, i piombi e doveva fare tutto con gli occhi aperti. E poi faceva freddo, noi eravamo in muta, lei in costume. Non mi sembra poco.

Quale è il tuo obiettivo?
Non ambisco a vincere dei premi, ma a farlo vedere a più gente possibile. La mia vittoria sarebbe questa. Questo non è un mio film, ma un film che io ho girato per dichiarare al mare il mio immenso amore. E quando si ama qualcuno lo si vuole proteggere…